[An interview I did with the wonderful Rivista Studio. To read the entire piece, go here.]
Insomma dici che il razzismo che c’è in Francia non c’entra proprio con la razza, che è più che altro “culturale”?
È un po’ come la storia degli amministratori francesi che, al tempo delle colonie, invitavano i capi locali a cena e quando questi imparavano a distinguere la forchetta dell’antipasto da quella della portata principale, allora erano riconosciuti come veri francesi. Se ci pensi, è il discorso che fa Finkielkraut, dice che quei selvaggi delle banlieue devono imparare a usare la forchetta se vogliono essere francesi. Poi però ti ritrovi, com’è successo il mese scorso, un po’ di gente a Parigi che grida “via gli ebrei dalla Francia”, ed evidentemente a loro il fatto che Finkielkraut sappia stare bene a tavola non interessa. Questa storia comunque mi ha convinto che non si può portare avanti una politica anti-Islam senza aprire le porte all’antisemitismo.
Tornando al tuo op-ed. Stando a quello che ho letto lì e ad altre cose che ho letto sulla tua bacheca, in pratica stai dicendo che la xenofobia è molto più mainstream, diffusa e, soprattutto, sdoganata, di quanto non si pensi. Che anche la nostalgia, diciamo “di sinistra” e “di classe”, per la vita francese, insomma lo slow food e cose simili, sono anche quelle cose un po’ xenofobe. Perché si parte dal presupposto che c’è un modo giusto di essere francesi, e dunque è l’altra faccia della medaglia della xenofobia in stile Le Pen.
Uh, mi ricordo che questa cosa ti ha un po’ stupito. Ho fatto arrabbiare un sacco di amici francesi, quando ho detto loro che il loro amore per lo slow food, per la convivialità, rimandava a dei concetti di destra. Ma, se ci pensi, è la stessa cosa che succede in Italia quando ci sono le ordinanze anti-kebab, nel nome dei cibi locali. Immagina che un kebabbaro apra proprio di fianco a una fromagerie… e tutto intorno c’è gente convinta che la fromagerie e gli altri negozi tradizionali sono l’espressione suprema del “fare le cose nel modo giusto”. In questo caso la xenofobia diventa molto più facile da giustificare, perché in teoria avviene in nome di un concetto, ufficialmente apolitico, come “la bella vita”. Ma in realtà è una discussione molto politica, perché si tratta di chi ha il diritto a stare dove. Non dico che lo slow food e il localismo siano intrinsecamente fascisti, dico che dobbiamo pensare diversamente ai valori fondamentali che si scontrano.
Più che xenofobia, però, mi pare una questione culturale…
Già, mentre all’estero la Francia continua a comportarsi come se fosse un impero, al suo interno il nazionalismo francese si è trasformato, da nazionalismo imperialista a una forma di nazionalismo culturale.
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